Buoni genitori. Buoni figli. Cattivi figli. Cattivi genitori.
Trauma. Abbandono. Ferita. Legame. Paura. Ansia da prestazione. Insicurezza. Ritiro sociale. Trasgressione. Autodistruzione.
Parole. Valutazioni. Più spesso sintomi. Diagnosi.

La mappa diviene il territorio. La difficoltà la diagnosi. Chi soffre il problema.
Sappiamo cosa fare. Sappiamo cosa dire. Sappiamo da dove arriva. Non lo diciamo, ma sappiamo anche di chi è la colpa. Ma non diciamolo. O almeno non ora.

Da tempo abbiamo diviso mente e corpo. Come se il continuum tra i due fosse solo una coesistenza nella stessa persona. Scindendoli a piacimento.
In pronto soccorso ci chiedono cosa sentiamo. Ad un funerale come ci sentiamo.
Come se il dolore fisico non incidesse sul nostro sentirci o come se il nostro sentirci non lo sentissimo anche fisicamente.
(Chi si occupa di neuroscienze saprebbe spiegare la connessione tra cambiamento epigenetico e trauma psicologico.)

Ormai questo schema lo operiamo in tutto. Senza consapevolezza.
“Dottore mio figlio è arrivato in famiglia a questa età, prima era, prima ha vissuto. All’arrivo faceva, ora fa e le maestre dicono….”
Non è difficile mettere insieme i sintomi. Collegare i punti e formulare la diagnosi: “Di certo è la ferita dell’abbandono. Oggi a fronte di questo e quest’altro riemerge, etc etc ….”

  • “Cosa possiamo fare?”
  • “Non lo so!”
    Panico. Si rompe lo schema diagnosi, terapia, prognosi.
    Il corpo estraneo non può essere rigettato.

Non lo dico per suscitare clamore o per innescare una qualche reazione paradossale. Ma bensì per il fatto che realmente non lo so.
Non sarò molto bravo ma non mi è mai capitato di vedere particolari insight a fronte della scoperta del colpevole. Allo smascheramento del difetto, del danno causato dalla ferita.
Ma piuttosto un “e allora quindi cosa posso fare?”

Questo è il modello della cura. Che molto ha a che fare con il modello della normalità che poi diviene la cultura del difetto.
Del problema da risolvere o gestire. La diagnosi non cura. La diagnosi diventa un modo per nominare, definire. Tenere sotto controllo. Ci permette di poter indicare.

Quel bambino è iperattivo. Se però ha una diagnosi di ADHD. Meglio. Perchè se fosse iperattivo senza diagnosi potrebbe essere che la scuola fatta sui banchi possa essere troppo statica per lui. Ma se la diagnosi è di ADHD conosco il danno.
Chi lavora nella scuola sa bene che poi su quella diagnosi va costruita una didattica fatta di strumenti dispensativi e compensativi. Non basta aver smascherato il danno. Il trauma.
Inoltre sa anche bene che molto spesso questi strumenti vengono rifiutati da chi dovrebbe usarli in quanto indicatori di diversità e stigma.

Il confondere la mappa con il territorio viene spesso mossa dall’ossessione di comprendere dove sta il danno per comprendere su cosa intervenire.

Famiglia adottive in crisi da prendere in carico. La famiglia, i genitori, i figli. Modelli di intervento. Istruzioni per l’uso. Percorsi. Misurazioni di passi in avanti e di passi indietro. Sono i genitori biologici, o i genitori adottivi o il figlio. E’ lui o sono loro? Qualcuno deve essere.


Ma si può prender in carico senza essere parte del territorio? Ritorniamo ad un paradigma di curante e curato come entità distinte?
Ma ancor di più sleghiamo “il danno” dal contesto? Nessuno può negare il danno. C’è e si vede. Ma cade in un contesto. Ogni evento si colloca in un preciso copione, ad una determinata scena della sceneggiatura.
Questo contesto, come l’universo, è fatto da elementi in movimento che corrono lungo orbite che si curvano o meno dentro lo spazio che si espande o si riduce. Questo è fatto in primo luogo dalla persona che ha subito la ferita. Dall’età. Dai fatti accaduti prima e dopo. Ma nello stesso tempo anche dalle persone che stanno intorno. Dal tipo di legame. Dal clima. Dal livello della voce. Dalle paure. Dalle idee. Tutte cose che a loro volta sono fatte di tutte quelle esperienze di cui ogni attore è portatore.

Ad esempio la trasgressione di un figlio ottiene risposte diverse a seconda dell’età del figlio, dei genitori, del loro essere soli o all’interno di una rete di supporto, dal loro essere genitori singolari o in coppia. Un evento fa più o meno paura anche in relazione alle esperienze pregresse dei genitori.

Ritorniamo alla colpa. La naturale inclinazione dei genitori adottivi a sentirsi inadeguati implica da una parte il dover passare lungo tempo a rassicurarli che non esistono genitori perfetti. Ma dall’altra parte anche a evitare che la colpa ricada sul figlio quando il loro senso di inadeguatezza diventa intollerabile. In quest’ultimo caso il senso di impotenza scatena un processo di deresponsabilizzazione in cui s’innesca una dinamica per la quale per il genitore agire diversamente da quanto fino a quel momento fatto diventa assunzione di colpa. Quindi impossibile.
Nel primo caso invece siamo di fronte a genitori impietriti che per redimersi e pagare pegno a tutti coloro che avevano dato loro fiducia come possibili genitori, si svuotano della loro funzione genitoriale seguendo le indicazioni degli “specialisti” (terapeuti, psicomotricisti, medici di base, amici, insegnanti, vicini di casa, …) pedissequamente. Di norma rinfacciandosi l’uno all’altro di non seguire quello che era stato detto in maniera chiara. Robe del tipo “cercate di accogliere il dolore di vostro figlio”. Che di fronte al rientro di mio figlio al mattino alle 5,00 strafatto o davanti alla devastazione della stanza e gli insulti non so poi quanto sia in realtà di facile interpretazione.

Più spesso mi concentro sulla reazione che ottiene una affermazione del tipo: “Deve essere proprio dura per voi. Deve fare veramente male”.
Vedo respirare. Vedo visi distendersi. Talvolta lacrime. Le spalle si lasciano andare.

Non c’è più danno. Non c’è più colpa. Non c’è più fare. Agire. Urgenza.

Il non sapere nulla della chimica dell’acqua, della fisica delle onde, dello spostamento della massa mi regala la fortuna di poter guardare come le onde arrivano a riva. E occuparmi di ciò che lasciano bagnato.

E il dolore provoca modificazioni di pensiero e di comportamento. Il nostro comportamento è il prodotto del nostro pensare e del nostro sentire. Occuparci del sentire, del nostro sentire è innestare euristiche di cambiamento perchè ci occupiamo della persona che ha scelto di essere genitore.

Se non chiediamo ai genitori di essere medici pediatri, o dentisti o insegnanti di inglese, forse non dovremmo chiedere loro di essere pedagogisti e traumatologici.
Forse dovremmo solo occuparci del loro essere genitori. Che significa essere anche, ma solo anche, educatori, contenitori, sponda del fiume, terreno. Ma significa in primo luogo essere “essere umani” che sentono emozioni, provano sentimenti. Talvolta soffrono.
E forse lì dovremmo stare senza sentirci in dovere di spiegare e insegnare.

Già pubblicato sul sito di Genitori si diventa – marzo 2021 – https://www.genitorisidiventa.org/notiziario/il-danno-la-colpa-il-trauma