Mi avevano parlato dell’abbandono. Della sua ferita.
Non pensavo, ma oggi riesco a vederlo. Lo vedo in quell’incedere incerto, in quel silenzio, in quello sguardo.
Lo vedo nelle sue insicurezze, nelle sue incertezze.
Poi a volte me lo sbatte in faccia. Con più durezza. Con più dolore.

Tante volte quando era piccola mi ha chiesto di raccontargli la sua storia. Erano pochi i perchè che mi chiedeva.
Alcuni particolari, quelli si che me li chiedeva.
E riuscivo ad immaginare insieme a lei. Oppure insieme ci guardavamo riempiendo quel vuoto di un colore o di un silenzio fatto di abbracci. Forse a volte con più serenità che con dolore. O con dispiacere.
Ma ancora quella sua mamma e quel suo papà, quelli biologici, riuscivo a guardarli con una certa calma. No, la gratitudine per aver messo al mondo mia figlia non riuscivo proprio a provarla.

All’inizio la competizione è stata forte. Non potevano esistere quei genitori. Quella mamma poi. La sua gravidanza. Il suo averla messa al mondo. E poi ….
Oscillavo tra il volerla rimuovere e il pensare che mai avrebbe potuto volerle bene perchè non era buona.
Ci ho messo un po’ di tempo. Ma ho capito che comunque erano dentro di lei, dentro mia figlia. Non potevo eliminarli.
Erano gli anni che prendevamo “l’album della storia”, come lo chiamava lei. E tra una foto e un bigliettino incollato su quelle pagine la sua mamma e il suo papà stavano un po’ con noi. Poi prendevamo l’aereo per tornare a casa. O andare a casa come diceva lei. E quei due tornavano dentro quell’album e restavamo solo noi.

Ma oggi no. Oggi non ce la faccio più. Maledico il male che le è stato fatto. Vedo la sua forza, la sua bellezza, la sua intelligenza schiacciarsi sotto quel dolore. Quello che le impedisce di andare a scuola. Quelle che la spinge a stare fuori la notte a stare con chissà chi a fare chissà che cosa. Quando ha iniziato a cambiare non capivo. Mi sono fatto aiutare. pensavo fosse ribellione. E poi anche poca voglia. Indolenza. Sbruffonaggine.
Ma poi mi hanno spiegato la paura di chi sa di non valere mai abbastanza. Mi hanno detto quanto il dolore di non essere mai stato desiderato va a braccetto con l’autodistruzione, perchè tanto nulla sentono di valere.
Mi hanno spiegato che quel rifiuto di me, quell’attaccarmi, quello spaccarmi, è il cercare di rimettere insieme: il passato, il presente, il futuro. La sua storia. I suoi 4 genitori. Il suo cercare chi è. Dispersa tra 8 nonni e due paesi, due lingue, due religioni. Si perchè non c’è solo un parto e un abbandono, ma c’è una storia di una famiglia. Perchè la forza dirompente di quella separazione non è in qualche valore aggiunto dell’essere in sè genitore biologico rispetto a quello adottivo, come quello della frutta e della verdura bio rispetto alle coltivazioni con pesticidi chimici. Quella forza sta nel fatto che in quell’abbandono c’è la perdita di una storia familiare, di un’origine che arriva da generazioni che l’hanno preceduta in cui lei non è più innestata.

No. Ora non ce la faccio ad esser grato a quei due di averla messa al mondo. Ora sono arrabbiato. Non ce la faccio a non giudicare. A non pensare che sono stati cattivi. Come fa una madre a fare quello che a fatto a lei? Non ce la faccio a pensare che solo grazie a quello che ha fatto che io oggi sono genitore. No. E’ cattiva. Non posso nemmeno lontanamente dire grazie. Ma nemmeno stare in silenzio.

Lo capisco. E non posso che condividere. Se a mio figlio oggi qualcuno facesse del male io non potrei perdonarlo. E a tua figlia qualcuno lo ha già fatto. Ti hanno detto che non devi esaltarla quella madre, edulcorando la storia. Così la si idealizza. Ma oggi il problema è che è difficile anche perdonarla.
E’ questo che mi stai dicendo?
Immagino il dolore. Ma non sei tu che devi perdonarla. A noi genitori è chiesto solo di accogliere e dare un senso.
Non possiamo continuare a ragionare il mondo in giusto e sbagliato. In buoni e cattivi. Dentro queste dicotomie cerchiamo verità più accettabili e digeribili. Cerchiamo a volte la sicurezza di essere meglio di loro. In questo modo in fondo sappiamo che quando i nostri figli dovranno scegliere non potranno, così, che scegliere noi: i buoni.
Ma non è così. Ti assicuro.
Sono donne e uomini come noi. A volte li incontriamo per strada, al supermercato. Perchè poi sono andate avanti. Hanno continuato a vivere.
Ma io ho sentito l’urlo di quella madre a cui veniva portato via il figlio.
Ho tagliato la corda delle tapparelle la notte prima del giorno del distacco da quella donna che sembrava così normale. Una donna come tante. Ma che vedeva suo figlio poco più di un bambolotto con cui giocare. A volte. Mentre altre era solo un peso, un ostacolo tra lei e il tentativo di ricucire col papà, che quel bambino proprio non lo voleva.
Ho visto le lacrime in quel padre mentre si massaggiava i polsi dopo che gli erano stati tolti ceppi con cui era stato tradotto dal carcere. Lo capiva che suo figlio non poteva aspettare che lui riparasse ai suoi errori. Le sue lacrime erano lacrime d’amore. Lacrime di dolore. Non ho visto amore in quel dire si va bene datelo in adozione. Ho visto solo disperazione. Non sapere come risolvere tutto quel casino. La madre, scomparsa, in fuga dalla comunità. E lui solo. E tutto da rifare. Con anni di carcere davanti a sè. E dopo il nulla.
Ho sentito quella madre piangere in silenzio mentre tornava a bere perchè per lei era finita. Non poteva sostenere tutte quelle richieste dei Servizi Sociali. Aveva bisogno di tempo. Stava male lei. E il suo compagno, il padre di sua figlia l’aveva lasciata per tornare con la sua ex. Che poi era la sua amica. La stronza.
Ho visto la consapevolezza e la disperazione negli occhi di quei due giovani genitori. Di buona famiglia. Di buona istruzione. Dalla diagnosi del loro bimbo nato da poche settimane non riuscivano più a guardalo. Non riuscivano più a tenerlo in braccio senza vedere anni di dolore e fatiche. Di cure. Utili solo a sopravvivere. Il loro dolore era così forte da non riuscire più a tenere in braccio quei 2 o 3 kg di pelle e ossicine. Non avevano più la forza. Ma sapevano che con quel gesto avrebbero distrutto la sua e la loro vita. Ma loro non si sentivano pronti per tutto quello. Nessuno li aveva preparati. E nemmeno avvisati che sarebbe stato possibile.

Vedi, il buono e cattivo non servono. E’ uno sguardo giusto. Ma limitato. Rassicurante ma non veritiero. A chi serve la condanna? Ci fa sentire meno male? Fa sentire i nostri figli meno feriti?
Certo dobbiamo scaricarli dalla responsabilità di quello che è accaduto. Non è colpa loro.
Ma qualcuno ha la colpa? Serve a qualcuno la colpa?
Bisogna comprendere la situazione. Il bianco e il nero non esistono.
Non c’è da salvare nessuno. Ma nemmeno da condannare nessuno. Bisogna imparare a comprendere il dolore. A sentire la disperazione.
L’abbandono è sempre una tragedia per tutti. Sia che lasci tuo figlio nella culla segreta sia che siano quei giudici a portarli via sancendo l’abbandono morale e/o materiale.
Certo in questa tragedia qualcuno è adulto e qualcuno è bambino inconsapevole che subisce e basta. Abbiamo da una parte l’innocenza e dall’altra il fallimento, la dipendenza, storie di privazione e di tragedie dentro cui è venuta al mondo una creatura senza colpa. Senza colpa.
Non si può aspettare che i grandi si rimettano in piedi. Non si può chiedere ai genitori di farcela quando la loro vita gli si sta ripiegando addosso.
Anche di fronte a violenze o abusi se si scava si scoprono altre tragedie. Altre infanzie violate, deprivate, lasciate sole. Abbandonate a loro stesse senza nessuno che le abbia adottate.
Vedi, io capisco la rabbia. La condivido.
Ma l’abbandono è sempre una tragedia. Per tutti. E davanti ad una tragedia possiamo solo piangere. O stare in silenzio. Abbracciare. Non c’è spazio per il giudizio. Perchè non sarebbe capace di accogliere il dolore. Quello vero. Non riuscirebbe a spiegare la verità di quell’abbandono. Quella più profonda.

Già pubblicato sul sito di Genitori si diventa – febbraio 2021 – https://www.genitorisidiventa.org/notiziario/la-storia-e-labbandono