Perché l’idoneità all’adozione?
Ma sono davvero necessarie?

È una domanda che spesso mi sento porre quando incontro le coppie durate i percorsi di attesa o nel mio studio privato.
Di norma il tono con cui mi viene posta è quello accusatorio. Il tono di chi si sente vittima di una ingiustizia, perché le coppie che possono avere figli non devono passare dai servizi sociali.
Sono arrabbiati e hanno perfettamente ragione. Almeno in parte.

Se la chiamiamo idoneità genitoriale dovremmo chiedere lo stesso percorso di consapevolezza e crescita anche anche ai genitori biologici. E a volte sarebbe proprio necessario.
L’indagine è a tutela dei bambini. Infatti il procedimento è affidato al Tribunale per i Minorenni che lavora esclusivamente a tutela del diritto del minore.
Al centro dell’adozione c’è il bambino e si guarda alla coppia che vorrebbe adottare per tutelarlo. Su questo le coppie si dicono d’accordo, ma non abbassa comunque la tensione e la rabbia. È molto spesso una adesione formale ad un principio sul diritto del minore, uno spiegarsi razionalmente un fatto che si fatica comunque ad accettare.

Durante il percorso coi Servizi Sociali la tensione dei genitori e il mandato degli operatori rende l’idoneità un traguardo da raggiungere, come un’esame da superare preparandosi per dare le risposte giuste. Sancisce o meno il nostro essere adeguati, preparati e preformanti. Il percorso di conoscenza, approfondimento e accompagnamento diventa così solo un’indagine. Infatti si chiama proprio così: Indagine dei Servizi Sociali. Fatta di domande che cercano e frugano e di risposte che cercano di scagionarsi e non contraddirsi per scendere presto dal banco degli imputati assolti dal giudice che ci aspetta in Tribunale.
Certo non tutti i percorsi con i Servizi sono così: esistono protocolli di indagine risultato di anni di ricerche ed esperienze, operatori sensibili e preparati e coppie serene, attente e disponibili a mettersi in gioco per il bene di loro figlio. Ma non sempre è così. Soprattutto quando sorgono dei problemi.

Se da una parte ribadisco la necessità del percorso di valutazione per le coppie aspiranti adottive dall’altra credo ci dimentichiamo sempre di due questioni. Due questioni basilari.
La prima è che non parliamo, o meglio non dovremmo parlare, visto che lo facciamo, di idoneità genitoriale ma solo di idoneità all’adozione. Infatti il Tribunale emette, nel caso di Adozione Internazionale, un Decreto di Idoneità all’Adozione.
Per gli aspiranti adottivi quello che viene messo in discussione e deve essere motivo dell’indagine non è la capacità genitoriale in sé, ma la genitorialità adottiva. Non tanto perché l’essere genitori sia una capacità innata in chiunque ma perché l’adozione porta con se non solo le difficoltà di tutte le maternità e le paternità ma anche una serie di problematiche aggiuntive legate alla storie di abbandono. All’abbandono si somma la deprivazione, l’incuria e i maltrattamenti, giusto per generalizzare nel tentativo di comprendere le innumerevoli, differenti e dolorose storie dei nostri figli.
Poi ci sono le condizioni legate alla salute fino ad arrivare alle difficoltà di adattamento alla nuova famiglia e al nuovo paese.
Tutto questo rende più difficile il processo di reciproco riconoscimento tra figli e genitori visto che tutte queste problematiche aumentano i bisogni di cui il bambino è portatore e hanno poi una diretta influenza sul comportamento (disfunzionale o aggressivo e violento) del bambino, primo fattore di rischio dei fallimenti adottivi.

Se è vero che alla nascita anche i genitori biologici devono abbandonare l’immagine di loro figlio ideale per abbracciare il loro figlio reale, questo processo per i genitori adottivi è decisamente più complesso.
Non solo per la totale mancanza di somiglianze somatiche e genetiche, che sicuramente facilitano un superficiale riconoscimento, inteso come appartenenza, ma anche perché la non corrispondenza tra il bambino immaginato e quello reale talvolta è messa profondamente in discussione: per differenze di età, di sesso, di carattere, etc.
Il bambino che nasce in una famiglia è sempre un estraneo che irrompe in una quotidianità fatta di equilibri e regole che devono necessariamente riadattarsi alla nuova presenza. Spesso le definiamo nuove esigenze, dimenticando che rispondere ai bisogni di un bambino (le esigenze) è quello che ci definisce genitori, cioè coloro che si assumono la responsabilità di rispondere a questi bisogni.
Inoltre se parliamo di genitorialità dobbiamo anche parlare di filiazione: cioè nostro figlio deve riconoscerci come i suoi genitori. E se la filiazione biologica appare, anche se non lo è, più lineare, quella adottiva nasce da una storia precedente che interroga nostro figlio. Il perché sono stato abbandonato, il perché mi avete voluto con voi, affondano le radici nell’impossibilità del bambino di sentirsi degno di cura e di affetto in quanto rifiutato e sbagliato.
Nostro figlio deve riconoscere nella nostra estraneità il nostro essere i suoi genitori, superando la sua diffidenza e paura dell’adulto vissuto come colui che lo abbandona e non rassicura. Deve adottarci anche lui. Ma non viene preparato a farlo e affronta direttamente il nuovo percorso senza aver prima rielaborato le sue ferite e i significati simbolici ed emotivi dell’adozione.
Quando questo processo adottivo fatica ad emergere ecco che la nostra legittimità come genitori inizia a vacillare.  Non ci sentiamo riconosciuti. Non siamo legittimi. La domanda “ma io riuscirò ad affezionarmi come se fosse mio?” (che porta in sé già un vizio di forma e di contenuto perché non è “come se fosse”), riemerge insieme alla domanda “sarò capace di fare la mamma o il papà?”. Che è la stessa domanda alla base del percorso coi Servizi Sociali, anche se dovrebbe essere meglio declinata: sarò in grado di rispondere ai bisogni di mio figlio così profondamente ferito e quindi essere per lui suo padre o sua madre?

La seconda questione che ci dimentichiamo riguarda noi operatori. L’adozione ha una funzione sociale. Essa infatti risponde al bisogno di dare accoglienza, educazione, affetto, cioè futuro ai milioni di bambini abbandonati.
Funzione che se lo stato dovesse assumersi in toto si troverebbe a far fronte ad un carico economico e sociale abnorme e impossibile da sostenere. Per non parlare poi delle conseguenze sociali di esperienze infantili deprivanti della vita collettiva in Istituto o in Comunità che emergono in adolescenza e nella giovane età adulta. Esse possono esprimersi negli anni avanti con la necessità di assistenza fino a dover far fronte a condotte antisociali, che non sono solo contro la legge o la “morale”, ma che hanno anche un costo economico e sociale.
Sono circa 3000 i bambini che vengono adottati ogni anno in Italia, tra Adozione Nazionale e Internazionale.
Chi si occuperebbe di loro se non ci fossero coppie che scelgono di adottare? Su chi peserebbe l’onere della crescita di questi bambini?

Quindi, se da una parte possiamo dire che è giusto che esita l’indagine in quanto tutela il minore e perché la genitorialità adottiva deve farsi carico di  maggiori bisogni e quindi di maggiori competenze, dall’altra dovremmo forse smettere di chiamarla indagine e farla diventare un reale accompagnamento.

Se i bambini hanno, in quanto bambini, diritto ad avere una famiglia è giusto che una coppia abbia, se non il diritto, almeno il legittimo desiderio di avere un figlio.

Se l’adozione non diviene un sostituto della maternità e della paternità biologica, ma una  nuova avventura verso la realizzazione di questo desiderio dovremmo pensare di sostenere queste coppie. Sono adulti che hanno deciso consapevolmente di affrontare (si spera) gli ostacoli interni ed emotivi, esterni e concreti, per meglio essere preparati ad accogliere loro figlio. Che hanno deciso di rendere le loro difficoltà, il loro desiderio, un percorso di crescita personale e di coppia.
Ai genitori adottivi viene chiesto di guardarsi dentro per scoprire e far emergere risorse affinché diventino competenze che possano poi realmente spendere con loro figlio al fine di rendere l’adozione una nuova storia felice.

Per noi operatori, per noi cittadini, essi sono una risorsa che va curata, accompagnata, sostenuta. I costi e le difficoltà dell’adozione sono realmente elevati, è quindi il caso di aggiungere a questi il sentirsi sotto inchiesta?
Certamente ci sono coppie prevenute che si sentono sotto inchiesta anche se non lo sono, ma forse il nostro compito sarebbe quello di valutare non solo percorsi di indagine e valutazione sempre più efficaci come prevenzione al rischio di fallimento adottivo, ma iniziare a valutare reali sostegni, pre, durante e post, che trasformino il desiderio di crescere un figlio in consapevole genitorialità adottiva. Dovremmo sempre più operare nella direzione di lasciar queste coppie sempre meno sole ad affrontare le difficoltà e di far vivere loro il nostro intervento come meno intrusivo e più di sostegno.