L’annunciazione.

Nonni, parenti e amici e il nostro percorso verso l’adozione.

A parte le naturali paure/scaramanzie connaturate alla gravidanza, esclusi i casi di gravidanze indesiderate o inopportune (se ne esistono), chi ha mai avuto timore di annunciare l’arrivo di proprio figlio?
Di norma si va a casa dei genitori, o in ufficio, o si esce con la propria amica del cuore, e colmi di gioia, talvolta anche di pasticcini e bevande rigorosamente analcoliche, si annuncia la lieta novella.

Questa cosa non accade spesso quando l’arrivo di nostro figlio è legato all’adozione. L’annuncio di voler intraprendere il percorso verso l’adozione porta con sé sentimenti di paura rispetto alle possibili reazioni.
Ci si prepara meticolosamente: si studia lo scenario dove accadrà questo annuncio, si cercano le parole esatte da usare e si cerca di prepararsi al meglio per affrontare tutte le possibili domande, o meglio sarebbe dire obiezioni, che potrebbero essere poste.

Siamo costretti a farlo anche perché lo stesso Tribunale, al momento della presentazione della domanda di adozione internazionale (o della disponibilità all’adozione nazionale), ci chiede la “lettera di consenso” da parte dei nostri genitori. Cosa che più o meno non ci accadeva dai tempi delle superiori con le giustificazioni sul diario per esonerarci dall’interrogazione: “Ieri mio figlio non ha potuto studiare perché siamo dovuti andare dalla nonna che non stava bene. La prego di giustificarlo”.
La prima spiegazione ufficiale è semplice: la famiglia e la rete sociale sono una risorsa/fattore di rischio per la “buona riuscita” dell’adozione stessa.
Ma non c’è solo questo. Iniziamo a toccare con mano che la nascita di nostro figlio non è più un fatto privato. Una decisione all’interno della coppia che decide “se e quando” avere un figlio. Con l’adozione la coppia può solo decidere di non averlo. “Se e quando” lo decidono gli altri.
Durante il fatidico annuncio la domanda più semplice che ci viene rivolta dai nostri cari è: “ma siete sicuri?”. A volte celata dietro sorrisi di circostanza ed espressioni enfatiche di gioia che nascondono la preoccupazione. Perché adottare non è facile: “Se poi non vi accetta? Se è malato? Se è grande? Se si ricorda dei suoi genitori e poi li vuole cercare?” Ecco alcune delle mille domande a cui si associano i più laconici, “Ci avete pensato bene? Vi siete informati?”

Ma cosa manca in queste conversazioni?
Manca il perché siamo arrivati al giorno in cui chiediamo ai nostri genitori di scriverci una lettera per il Tribunale. L’infertilità è la causa maggiore per la quale le coppie arrivano a pensare all’adozione (cosa che non deve confondersi con la motivazione per cui si adotta, perché l’adozione non ripara l’infertilità).
L’infertilità è una ferita come l’abbandono è una ferita. Sono differenti nelle loro conseguenze psicologiche ed emotive, ma sono entrambi eventi traumatici. I genitori adottivi lo sanno bene perché più volte incontrano nel loro percorso l’espressione “elaborazione del lutto dell’infertilità”.
In quelle conversazioni sull’adozione manca il dolore, la delusione, le speranze che di tentativo in tentativo si sono riaccese colmandoci il cuore di gioia per poi lasciare spazio al buio del nuovo fallimento.
Siamo li seduti intorno ad un tavolo a cercare di rassicurare parenti o amici. Sorridiamo, snoccioliamo dati sull’adozione, rimaniamo immobili di fronte a domande di cui non conosciamo la risposta abbozzandola comunque (poi a casa accendiamo immediatamente il pc per cercare la risposta esatta).

A volte ci indispettiamo di fronte alla non comprensione del nostro entusiasmo. Nei migliori dei casi spieghiamo tutto l’iter burocratico, che conosciamo a memoria, e tutti i contatti presi con il mondo dell’adozione, rimandando a un secondo momento, magari senza il consorte, le domande più scomode.
In quelle parole non c’è traccia della paura che abbiamo nell’aver intrapreso, seppur consapevoli, questo percorso che ci espone, che ci rende dipendenti da decisioni altrui e che potrebbe finire male. Perché insieme alle storie rassicuranti che andiamo a raccontare in giro noi conosciamo anche quelle più raccapriccianti.
Non si parla della nostra preoccupazione, della nostra rabbia del doverci sottoporre alle domande altrui che indagano la nostra vita, ma meglio sarebbe dire “nella nostra vita”. Non emergono nemmeno i timori per quel colloquio con il Giudice, l’angoscia per la telefonata che non arriva e il tempo che passa. Lo smarrimento di fronte alla scelta dell’Ente, la discussione con il nostro coniuge sulle disponibilità e la discussione con noi stessi sulle nostre disponibilità. E poi ancora i timori, le aspettative e le fantasie su quell’incontro, le lacrime, gli abbracci, i silenzi, le parole che diciamo mentre ci mettiamo a nudo durante i percorsi o con i Servizi Sociali. Non ci sono nemmeno le parole che ci diciamo di notte e che non abbiamo detto durante i percorsi o con i Servizi Sociali. In quei discorsi non affiorano le preoccupazioni, le litigate con il coniuge che prende il tutto troppo alla leggera o con troppa pesantezza. Ed infine non c’è spazio nemmeno per le fitte allo stomaco quando sentiamo alcune storie.

Eppure andiamo al pranzo della domenica come ogni domenica da quando siamo usciti di casa. Sorridiamo e parliamo. Rispondiamo ad alcune domande, che forse più o meno sono sempre le stesse. Domande che si diradano col tempo, perché nessuno vuole essere troppo intrusivo o insistente, ma che lasciano così spazio al silenzio sull’adozione. Silenzio che poi, quando siamo a casa, si fa più difficile, rallentando la digestione. In questo percorso, che ci sta cambiando e che ci cambierà per sempre, siamo sempre più soli.
Forse sono troppe le emozioni e sono troppi i pensieri da poter essere raccontati. O forse la gravidanza adottiva è così lontana dalla gravidanza biologica che non riusciamo a colmare quello spazio nemmeno nei periodici e continui pranzi della domenica: troppo poco tempo. Magari è per questo che i genitori adottivi si riconoscono tra di loro quando si incontrano, come due italiani in mezzo alle montagne del Nepal o nel Suq di Marrakech e che riescono a parlarsi senza doversi spiegare, senza bisogno di traduzione.
Sarà per questo (ma io credo che non sia solo per questo) che esistono le associazioni di genitori adottivi?

È giusto conoscere l’adozione, partecipare a serate, sapere chi sono i bambini che arrivano con l’adozione, quali sono i loro bisogni, quali spazi dover lasciare alla nuova famiglia e quali ruoli ricoprire per i nostri nipoti, come gestire le informazioni tossiche che i nostri nipoti ci lasciano riguardo alla loro vita prima dell’adozione, etc.
Ma forse oltre che informarsi su cosa sia l’adozione sarebbe anche necessario comprendere cosa significa adottare … per due genitori, che poi sono i nostri figli.


Successivamente pubblicato in: F. Mineo, Una famiglia che nasce. Una guida pratica per nonni contemporanei. Ed. San Paolo – 2018